La scuola italiana ancora nel mirino delle istituzioni europee

19 Feb 2021

La scuola italiana ancora nel mirino delle istituzioni europee

Dopo sei anni dalla sentenza Mascolo della Corte europea, la situazione del precariato scolastico italiano è di nuovo nel mirino delle istituzioni europee. 

Nel 2014 i giudici di Lussemburgo, pronunciandosi sulla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte costituzionale con l’ordinanza 207/2013, bacchettavano l’Italia dichiarando la violazione della Direttiva UE 1999/70 sul contratto a termine nella normativa scolastica, la quale consentiva la reiterazione infinita dei contratti a termine. 

Il legislatore italiano interveniva tempestivamente con la legge sulla buona scuola (107/2015) del Governo Renzi, la quale disponeva la stabilizzazione di tutto il personale delle graduatorie ad esaurimento istituite con la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 605.

Ma queste non contenevano tutti i precari scolastici, restando esclusi dalle procedure quelli iscritti nelle graduatorie di istituto, dove sono iscritti gli insegnanti che annualmente sono utilizzati per i posti vacanti e che si distinguono in:

  • supplenze annuali e temporanee fino al termine delle attività didattiche per posti che non sia stato possibile coprire con il personale incluso nelle graduatorie a esaurimento (cd. organico di diritto);
  • supplenze temporanee per la sostituzione di personale temporaneamente assente (cd. organico di fatto);
  • supplenze per la copertura di posti divenuti disponibili dopo il 31 dicembre (cd. sostituzioni temporanee).

Per costoro la legge 107/2015 prevedeva l’attivazione di concorsi finalizzati alla loro assunzione che poi sono stati indetti per una parte dei posti disponibili e disponeva (art. 1, co. 131, L.107/2015) un utilizzo non superiore a tre anni (norma però poco dopo cancellata per evitare di conclamare l’abuso e poter così procedere indisturbati nell’utilizzo continuo a termine del personale).

Il nuovo sistema veniva convalidato dalla Corte costituzionale con la sentenza 187 del 15.06.2016 la quale dichiarava “l’illegittimità costituzionale, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, della L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, commi 1 e 11, nella parte in cui autorizza, in mancanza di limiti effettivi alla durata massima totale dei rapporti di lavoro successivi, il rinnovo potenzialmente illimitato di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti nonché di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza che ragioni obiettive lo giustifichino”. A conforto della decisione presa, la Corte dava atto anche dell’avvenuta chiusura, da parte della Commissione europea, della procedura di infrazione per violazione della Direttiva 1999/70 n. n. 2014/4231 – Contratti di lavoro a tempo determinato nel settore pubblico.

I “limiti” di cui alla motivazione della Consulta si sostanziavano nel ritenere che la stabilizzazione dei docenti inseriti nelle graduatorie ad esaurimento e la previsione del risarcimento del danno, nel frattempo stabilito dalla sentenza delle Sezioni unite del 25 marzo 2016 n. 5072 (l’indennità di cui all’art. 32 della legge 183/2010 nella misura da 2,5 a 12 mensilità), fosse sufficiente ad adeguare l’ordinamento nazionale a quello europeo come stabilito dalla sentenza Mascolo.

Ma un sistema così congegnato non poteva però funzionare, risultando comunque evidente, soprattutto dopo l’eliminazione del divieto di utilizzo del personale oltre il triennio, il verificarsi (certo) degli abusi, esponendo così il Ministero dell’istruzione al rischio di continui risarcimenti.

In questo quadro soccorreva così la Corte di cassazione decidendo, con una lunga serie di sentenze (capostipite la 22552 del 9 novembre 2016), tutto il contenzioso nel frattempo “congelato” nelle cancellerie in attesa della Corte di giustizia e della Corte costituzionale, con il quale si affermava che:

  • l’abuso nell’utilizzo dei contratti a termine si configurava unicamente nelle ipotesi di utilizzo di personale incluso nell’organico di diritto, cui spettava unicamente il risarcimento di cui all’art. 32 (oltre al danno ulteriore da “perdita di chance”, sostanzialmente indimostrabile dal lavoratore);
  • nessun risarcimento spettava invece al personale inserito nell’organico di fatto “salvo che non sia allegato e provato da parte del lavoratore che, nella concreta attribuzione delle supplenze della tipologia in esame, vi sia stato un uso improprio o distorto del potere di organizzazione del servizio scolastico, delegato dal legislatore al Ministero, e, quindi, prospettandosi non già la sola reiterazione ma le condizioni concrete della medesima (quali il susseguirsi delle assegnazioni presso lo stesso Istituto e con riguardo alla stessa cattedra)” (così Cass. 22552/2016, pt. 102).

Poiché è principio generale (e comunque sancito nel nostro ordinamento, ex art. 36 d.lgs. 165/2001) che l’onere della prova circa la legittimità del termine apposto al contratto spetti al datore di lavoro, riesce poco comprensibile – se non in un’ottica di neppur nascosto “favor” nei confronti dell’amministrazione scolastica e in totale scollegamento con i principi generali in tema di prova – addossarne il relativo onere al lavoratore abusato, posto che non riesce agevole per il lavoratore dimostrare fatti e circostanze che sono nella disponibilità del datore di lavoro e non certo del docente interessato.

Senza contare che l’utilizzo persistente del docente o del personale ATA alle dipendenze del Ministero, anche ove muti la posizione lavorativa occupata (pur nella parità delle mansioni svolte) non si comprende come possa ritenersi sottratto ai principi della Direttiva.

È in tale situazione che l’Anief, un sindacato della scuola, ha presentato un reclamo al Comitato europeo dei diritti sociali di Strasburgo che ha il compito di vigilare sull’applicazione della Carta sociale europea, siglata a Torino nel 1961 e rivista a Strasburgo nel 1996, cui l’Italia aderisce. 

La Carta, nell’ambito del sistema sorto ad iniziativa del Consiglio d’Europa, si occupa dei “diritti di seconda generazione” rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) che riconosce i diritti civili e politici e che trova il suo centro nella Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo. La Carta sociale garantisce i diritti positivi e le libertà che riguardano tutti gli individui nella loro esistenza quotidiana: diritto di abitazione, salute, educazione, i diritti del lavoro, l’occupazione, il congedo parentale, la protezione sociale e legale, dalla povertà e l’esclusione sociale, la libera circolazione delle persone e di non discriminazione, e anche i diritti dei lavoratori migranti e delle persone con disabilità.

Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la democrazia, i diritti umani, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa: fondato il 5 maggio 1949 con il Trattato di Londra, conta oggi 47 stati membri ed ha sede a Strasburgo.

I principali organi del Consiglio sono: il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, il Segretario generale del Consiglio d’Europa, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa e il Congresso dei poteri locali e regionali. Il Consiglio, con i suoi organi, si attiva nel predisporre e favorire la stipulazione di accordi o convenzioni internazionali tra gli Stati membri e, spesso, anche fra Stati terzi; le iniziative del Consiglio d’Europa non sono vincolanti e vanno ratificate dagli Stati membri.

Il 17 ottobre 1989 gli è stato riconosciuto lo status di osservatore dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

A tali organi si affianca il Comitato europeo per i diritti sociali, istituito a Torino ai sensi dell’art. 25 della carta sociale, il cui compito è quello di esaminare i rapporti inviati dagli Stati membri del Consiglio d’Europa che relaziona periodicamente sul rispetto dei principi della Carta;

Il Comitato determina altresì se gli Stati ottemperino le disposizioni contenute nella Carta sociale ed emette “conclusioni”, ovvero valutazioni in merito pubblicate annualmente. In caso di rilevata inottemperanza da parte di uno Stato, notizia in merito il Comitato dei Ministri il quale chiede al Paese di adottare determinate misure per garantire conformità alla Carta. Gli Stati sono tenuti a redigere un rapporto ogni 5 anni sulle disposizioni non accettate.

Ma la funzione più rilevante è quella di costituire, di fatto, un completamento del sistema di tutela sociale dei diritti europei che sono in via di unificazione (si veda il Pilastro sociale europeo, recentemente siglato a Goteborg il 17 novembre 2017).

Si consideri infatti che la Corte di giustizia può esser adita solo in via incidentale dal giudice nazionale avanti al quale pende una controversia nella quale occorre un chiarimento sui trattati o sulle direttive europee e alla Cedu si può ricorrere solo dopo avere esaurito l’intero iter giurisdizionale del paese di appartenenza. Tale situazione comporta spesso ritardi o impedimenti nella definizione della tutela dei diritti.

Avanti al Ceds è invece possibile agire in via preventiva, ancor prima quindi che il conflitto sia sfociato in un procedimento giudiziale.

L’instaurazione del procedimento è limitata alle ONG europee e nazionali o alle organizzazioni sindacali attraverso il deposito di una denuncia, secondo il protocollo entrato in vigore il 1° luglio 1998, nei confronti dello Stato firmatario, avente ad oggetto le violazioni della Carta. Tale reclamo viene esaminato e, se giudicato ammissibile, inizia il contraddittorio scritto col Paese interessato. All’esito, il Ceds redige un rapporto al Consiglio dei ministri che viene reso pubblico, dopo un certo lasso di tempo (normalmente quattro mesi) in modo da consentire al Consiglio eventuali interventi.

I pareri del Ceds non sono provvedimenti giurisdizionali vincolanti per lo stato destinatario della denuncia, ma hanno comunque una certa rilevanza nell’interpretazione del diritto nazionale poiché la Carta sociale europea, come più volte stabilito dalla Corte di cassazione (cfr., tra le tante, Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 31-10-2019) 17-01-2020, n. 987), è una delle fonti di diritto internazionale che si integra nel sistema degli stati aderenti alla Carta e, dunque, da prendere in considerazione nell’esame delle controversie nazionali. Il Ceds è quindi l’organo che istituzionalmente ha il compito di interpretarne gli scopi ed i principi.

Si ricordi del resto che la Corte costituzionale italiana, nella sentenza 194/2018, nel dichiara la illegittimità parziale del jobs act quanto alla misura del risarcimento in caso di licenziamento fa espresso riferimento all’art. 24 della carta sociale.

Il Ceds ha emesso il suo parere sul reclamo dell’Anief in data 7 luglio 2020, reso pubblico 19 gennaio 2021.

La questione decisa in senso positivo per il sindacato denunciante è quella relativa al diverso trattamento dei contratti a termine stipulati in organico di fatto e di diritto. Così si esprime il parere:

«95. Sebbene la mera anzianità di servizio spesa con contratti di lavoro a tempo determinato non implichi necessariamente un diritto incondizionato e automatico di ottenere contratti di lavoro a tempo indeterminato, in particolare nel settore pubblico, il Comitato ritiene che quando il servizio fornito con contratti a tempo determinato soddisfa gli standard di qualità richiesti ed è equivalente a quella del personale assunto con contratti a tempo indeterminato, l’esperienza maturata attraverso contratti successivi, anche con interruzioni, dovrebbe essere presa in considerazione, tra l’altro, come criterio pertinente per l’assunzione nell’ambito di concorsi pubblici. 

96. A tale riguardo, il Comitato prende atto delle misure previste e / o attuate per ridurre progressivamente il numero dei contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione, compreso il settore dell’istruzione pubblica. Tali misure includono l’avvio di concorsi di assunzione che sarebbero aperti a lavoratori non 

iscritti negli elenchi ERE, ma che abbiano accumulato una significativa esperienza lavorativa a seguito dell’utilizzo di successivi contratti a tempo determinato. Tuttavia, il Comitato rileva che l’offerta di posti per questa categoria di lavoratori rimane limitata e residuale, rispetto alla priorità data ai candidati iscritti nelle liste ERE e ai neolaureati indipendentemente dalla loro effettiva esperienza lavorativa o dalla qualità di tale esperienza. 

97. Inoltre, il Comitato rileva dalla relazione della Corte dei conti (2019) che a febbraio 2019, ovvero quasi due anni dopo l’introduzione di questa denuncia e dopo i concorsi di assunzione tenuti nel 2016 e nel 2018, il ricorso ai contratti a tempo determinato per il personale dell’istruzione pubblica non è diminuito. 

98. Sebbene il Comitato non possa valutare l’efficacia e l’adeguatezza delle misure adottate più di recente, in quanto non ancora pienamente attuate, ritiene che, qualora i contratti a tempo determinato siano stati successivamente rinnovati per un periodo di tempo molto lungo, possono non è più considerata rispondente a esigenze eccezionali, imprevedibili e temporanee, e ritiene che ciò indichi che non vi è stata un’adeguata prevenzione degli abusi derivanti dal ricorso a contratti a tempo determinato. 

99. Inoltre, ritiene che i rimedi disponibili in caso di abuso dei contratti a tempo determinato non siano sufficienti nella pratica nel settore dell’istruzione pubblica, in considerazione dell’onere eccessivo imposto al personale non assunto con contratti annuali per provare l’abuso e dimostrare l’assenza di necessità eccezionali e temporanee. 

100. Vista la situazione del personale dell’istruzione pubblica non iscritto negli elenchi ERE e assunto con contratti successivi con interruzioni per una durata complessiva superiore a 36 mesi, il Comitato ritiene che vi sia stata un’ingerenza sproporzionata nel loro diritto al guadagno il loro vivere in un’occupazione liberamente intrapresa, a causa di: 

– assenza di efficaci tutele preventive e riparatrici contro gli abusi derivanti dall’indebito ricorso a contratti a tempo determinato, unita a 

– all’incertezza giuridica, derivante dalle ripetute modifiche alla legislazione e giurisprudenza e 

– le limitate possibilità di ottenere contratti a tempo indeterminato indipendentemente dalle effettive competenze e dall’esperienza lavorativa. 

101. Conseguentemente ritiene che vi sia stata violazione dell’articolo 1§2 della Carta.» 

L’art. 1 della Carta prevede che:

«Per garantire l’effettivo esercizio del diritto al lavoro, le Parti s’impegnano:

1 a riconoscere, tra i loro principali obiettivi e responsabilità, la realizzazione ed il mantenimento del livello più elevato e più stabile possibile dell’impiego in vista della realizzazione del pieno impiego;

2 a tutelare in modo efficace il diritto del lavoratore di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente intrapreso;

3 a istituire o a mantenere servizi gratuiti in materia di occupazione per tutti i lavoratori; 4 ad assicurare o a favorire un orientamento, una formazione ed un riadattamento professionale adeguati.».

Vedremo ora come la Corte di cassazione riterrà di valutare l’intervento del Ceds, tanto più che nel parere si da atto che è stata aperta una nuova procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano a seguito della comunicazione di avvio fatta nel luglio 2019:

“Condizioni di lavoro: la Commissione sollecita l’ITALIA a prevenire l’abuso dei contratti a tempo determinato e ad evitare le condizioni di lavoro discriminatorie nel settore pubblico La Commissione ha deciso in data odierna di inviare una lettera di costituzione in mora all’Italia, paese in cui i lavoratori del settore pubblico non sono tutelati contro l’utilizzo abusivo della successione di contratti a tempo determinato e la discriminazione come previsto dalle norme dell’UE (direttiva 1999/70/CE del Consiglio). Le norme dell’UE prevedono che i lavoratori a tempo determinato non godano di condizioni di lavoro meno favorevoli di quelle dei lavoratori a tempo indeterminato comparabili, a meno che ciò non sia giustificato da ragioni oggettive. Attualmente la legislazione italiana esclude da questa protezione diverse categorie di lavoratori del settore pubblico (ad esempio insegnanti, personale sanitario, lavoratori del settore dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica, personale di alcune fondazioni di produzione musicale, personale accademico, lavoratori agricoli e personale volontario dei vigili del fuoco nazionali). Inoltre, l’Italia non ha predisposto garanzie sufficienti per impedire le discriminazioni in relazione all’anzianità. La Commissione invita le autorità italiane a conformarsi pienamente alle pertinenti norme dell’UE. L’Italia dispone ora di 2 mesi per rispondere alle argomentazioni formulate dalla Commissione, trascorsi i quali la Commissione potrà decidere di inviare un parere motivato”.

Roma, 19 febbraio 2021

Sergio Galleano


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